“Don Carlo” in forma di concerto al Théatre des Champs- Elysées
Domenica 28 Aprile 2013
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Finalmente ecco il lato nascosto del Théatre des Champs- Elysées, uno stretto e cortissimo vicolo buio con i camion che trasportano strumenti e abiti da concerto parcheggiati e deserti. In fondo, incastrato nel muro e appena illuminato l’ingresso artisti. Un “Bonsoir!” detto timidamente al guardiano dormiente dietro il vetro, qualche scalino salito con foga e dopo due porte tagliarumore ecco il retropalco nero disseminato dei cassoni porta abiti e le grandi casse foderate a comparti per traslocare in sicurezza gli strumenti dell’orchestra. Tra sgabelli e cavi per luci di scena c’è un popolo quasi immobile e assorto: i gesti precisi e pazienti, l’ assoluta perizia nel sentire le vibrazioni del proprio strumento, ogni movimento studiato e ripetuto migliaia di volte, un’attenzione totale nella penombra prima di sedersi in orchestra. Sul palco le gradinate di legno con sedie grigie impolverate chiuse in tre pareti di legno chiaro, come una gigantesca scatola acustica e davanti la sala ancora vuota del Teatro.
Dopo una prova intensa torno fuori a respirare il vento fresco che passa tra le travi di ferro della Tour Eiffel e un ponte sulla Senna, lunghe chiatte bianche ancorate alle banchine e file di turisti intenti a scattar fotografie sotto un cielo quasi livido; i fiori alle finestre dei grandi alberghi fan sembrare allegre le vie limitrofe nell’assalto rutilante di moto e automobili e, mentre ritorno verso la mia sedia grigia, passo attraverso inimmaginabili suoni di lingue ignote, tavolini in vimini dei ristoranti alla moda e drappelli di variopinti bipedi fermi sulle corsie per biciclette.
Ritorno rapidamente al Teatro con occhi pieni dei colori della Senna, ripetendo brandelli di testo e sfiorando in memoria le pause, il gesto sinuoso del direttore, cercando di ricordare la sedia sulla quale sedermi davanti alle luci.
Ecco, è ora d’ entrare davanti al pubblico: infilati nei nostri smoking neri su camicia bianca entriamo sul palco come in ranghi d’onore ad occupare il nostro posto in questo luogo magico; corpi e volti delle persone in platea sembrano svanire come in lunghe pennellate di pastello chiaro nel buio della sala, poi alcuni istanti di silenzio, quelli che separano l’ansia di prima dalla pura concentrazione d’adesso: il concerto comincia.
Sono abituato a cantare un’Opera muovendomi e indossando costumi; star qui immobile e ascoltare la pienezza dell’orchestra è un’esperienza nuova, curiosa, interessante, anche perché di solito sento le voci dei solisti direttamente, ma in questa situazione posso avvertire solo echi di ciò che cantano, voci infrante dai corpi del pubblico, riverberate da legni dorati, sculture e colonne della sala.
Quante volte vedo in quello spazio buio tra le pareti di ciliegio chiaro appena accostate il passar di tecnici francesi e la bocchetta antincendio rossa addossata al muro, lo stucco dorato e perfetto del boccascena schiacciato appena dietro lo spigolo invisibile dalla sala, gl’occhi incandescenti di luce dall’ultimo anello della galleria, ondate d’ombre sui violini negli attacchi all’unisono, maree montanti o calanti d’ archetti e crini bianchi come nuguli di frecce, e sento le tonalità profonde, magmatiche dei contrabbassi alla mia sinistra; immagino stanchezza in quelle spalle, sudore e concentrazione per esser perfetti tutti insieme, qui ed ora.
Il senso d’un mistero che ci abita contemporaneamente mentre insieme pensiamo, partecipiamo e creiamo qualcosa per altri e per noi stessi, lo stupore finale superiore alla somma delle parti, oltre le nostre voci, i nostri strumenti, i nostri piccoli mondi antichi.
La meraviglia di sentirmi esploratore e nocchiero, ciurma e capitano, ambasciatore d’emozioni con cento e cento altri per scuoter cuori e mani lontano da casa, venuto fin qui per offrire e trovare un senso di bellezza in qualcosa di condiviso oltre idee, politiche, frontiere.
Altre luci s’accendono sopra le nostre teste, scatta l’ applauso come schiaffo al buio di prima, noi in piedi, immobili, il gusto primitivo e sobrio d’aver fatto bene il nostro lavoro; torno in albergo assonnato, mentre Parigi imperiale quasi dorme e ragazzi, forse ubriachi, si scambiano pugni sotto un lampione.