« Teacher: remember, you are part of our future». Fotografai qualche lustro fa questo scritta a lettere cubitali in calce bianca, in uno sperduto villaggio del Borneo, sulla parete verde di lamiera ondulata della scuola coperta dal tetto di frasche.
Questo ammonimento mi ritorna alla mente oggi, quando leggo i commenti che i media dedicano ai test PISA 2012, i programmi di valutazione internazionale degli studenti, test che registrano il piccolo, significativo avanzamento – in una classifica pur sempre mediocre: attorno al trentesimo posto – dei nostri studenti. Guidano questo strumento di valutazione le “tigri asiatiche”: Shangai, Singapore, Sud Corea, Hong Kong e, singolare ma comprensibile, il Viet Nam. Risultato eccezionale, sopra tutto se comparato al loro livello di reddito: le scuole vietnamite, mostra il test, sono andate molto meglio di quelle americane. Quindi non è (solo) questione di stanziamento di risorse.
Commentando per il Corriere della Sera di cui è editorialista i risultati del test Ocse PISA, Roger Abravanel (ingegnere, manager e scrittore italiano, presidente dell’Insead Council italiano) e tentandone una spiegazione, scriveva: “Si potrebbe pensare a un fattore culturale, ma dal punto di vista etnico e culturale le differenze sono enormi. Tutti questi Paesi hanno qualcosa in comune: una convinzione diffusa da parte di alunni, famiglie e insegnanti che l’impegno, l’etica dello studio e del lavoro fin dai banchi di scuola sia il passaporto per una vita migliore. […] La società ha deciso che la scuola era importante per lo sviluppo sociale ed economico e così è stato. […] Gli insegnanti sono scelti tra i migliori laureati del paese e non guadagnano somme enormi, perché si sentono molto importanti per la società. Le super scuole di questi Paesi con il loro misto di insegnamento intelligente e disciplina rigorosa hanno un duplice ruolo: insegnare l’etica del lavoro del ventunesimo secolo, un misto di disciplina, problem solving e creatività”. E i risultati economici dimostrano che sono sulla strada giusta.
Quando nel 2009 visitai l’università di Pechino, comunemente conosciuta come Beida, circa 30.000 studenti – 34 dei suoi ex allievi sono oggi tra i 150 cinesi più ricchi, dove non si può andare fuori corso, appresi con stupore che gli allievi della facoltà di economia superavano, per il terzo anno consecutivo, quelli delle più note università americane vincendo l’oscar internazionale del marketing, e che, anzi, il governo federale Usa aveva acquistato proprio dalla Cina il ‘metodo’ per l’insegnamento delle scienze matematiche e statistiche, ritenendolo più ‘proficuo’ rispetto al suo.
Magia dell’Oriente che contagia l’istruzione? Non si direbbe proprio. Piuttosto, la consapevolezza generale che attraverso una buona formazione scolastica si guadagna riscatto sociale. Nel lavoro e nella vita. Ora, anche da noi le buone scuole producono allievi preparati, e il test PISA lo conferma evidenziando il lieve avanzamento di cui parlavamo. Miglioramento avvenuto, peraltro, in anni recenti malgrado i famigerati “tagli alla cultura” approvati dagli ultimi governi.
O, magari, proprio per questo? Non sarà forse che competere (individualmente, collettivamente e come Istituto) come accade negli altri Paesi, fa bene alla scuola e alla nostra società? Perché non provare a crederlo?