L’estate di sedici anni fa tornammo a passare le vacanze in Valchiusella, dove andavamo da ragazzine, per la villeggiatura. Avevamo deciso, entrambe, di riaprire le nostre case che anni prima erano state così piene di gente e di vita e ci eravamo portate da leggere alcuni libri tra cui “Gita al faro”, perché non avevamo voglia di rivedere gli amici di sempre. Non quell’estate. Avevamo avuto la stessa idea nello stesso momento, anche se non ci sentivamo più da anni.
Abbiamo scoperto solo parlandone di recente, che mai più pensavamo di essere li entrambe (ognuna di noi immaginava l’altra chissà dove) e che, sebbene a distanza, provavamo sentimenti e sensazioni analoghe. Non c’è da stupirsi che fossimo state così amiche, anche se non per molti anni.
Ci eravamo sorprese entrambe, ognuna a suo modo, per la somiglianza (infinitamente in piccolo), tra le due case riaperte per l’estate, con quella descritta nel libro, polverosa e tarlata, e per l’assenza di una signora Ramsay che per noi erano tutte le persone perdute nel tempo. Virginia Woolf era un mito per noi, allora. Altre scrittrici lo furono in seguito: Marguerite Yourcenar, Doris Lessing, Edith Wharton, Jane Austen… e così andando a ritroso nel tempo passammo, chissà bene come, ad autrici meno conosciute, o “cadute nel dimenticatoio”.
“Sgattavamo” nelle librerie dell’usato e nelle biblioteche. Ci piaceva l’idea di andare a ripescare autrici di un altro secolo, che scrivevano presumibilmente di nascosto. Signore ben educate, disapprovate da mariti e familiari che trovavano disdicevole, per una donna, dedicarsi a qualsiasi altra cosa che non fosse allevare marmocchi e fare marmellate o, nel migliore dei casi, dare istruzioni alla cuoca e intrattenere gli ospiti, più o meno graditi, in salotto . Quando Charlotte Brontë (autrice di Jane Eyre) era giovane, scrisse al poeta Robert Southey, sperando in un incoraggiamento. Lui riconobbe il suo talento, ma le disse ugualmente di non sprecare altro tempo a coltivarlo, perché “La letteratura non può essere l’occupazione nella vita di una donna, e non dovrebbe esserlo”. Per fortuna lei non gli diede retta.
Avremmo voluto anche scoprire autrici sconosciute, magari povere e sole, magari morte intirizzite su una panchina, con un quadernetto in mano che si sarebbe rivelato un capolavoro assoluto, se solo si fosse potuto leggerlo. Insomma autrici che , in vita, “non se le era filate nessuno”. nei film, d’altronde, un libro sconosciuto (e trovato casualmente) è quasi sempre l’inizio di una storia misteriosa e affascinante tipo: Il barelliere dell’autoambulanza che soccorre la donna morta sulla panchina, butta il quadernetto nel fiume. Un bambino che cerca tra i rifiuti lo ripesca e lo fa asciugare per usarlo come carta igienica. Il nonno, un vecchio studioso esule dal suo paese, si apparta dietro un cespuglio per espletare le sue funzioni intestinali. Il poveretto però soffre di stitichezza ed è costretto a starsene accovacciato a lungo prima di riuscire nell’intento. Così per distrarsi legge il quaderno ormai semicancellato e, ad un certo punto, con i pantaloni ancora calati, corre via per i boschi urlando di gioia. Il bambino e gli altri rifugiati stanchi e affamati vedono il nonno saltellare su e giù mentre ripete come un ossesso – la poesia la poesia la poesia- così lo ricoverano. Il quaderno rimane tra le povere cose del vecchio che il nipote tiene gelosamente come ricordo. Ma un giorno il bambino viene ucciso.
Un giornalista, arrivato in loco vede, del tutto casualmente il quadernetto (scritto nella lingua del nonno esule), lo pubblica e il libro diventa un successo tale che viene tradotto in 25 paesi del mondo.
L’autore però viene identificato come ignoto, al maschile…