L’uomo usa il 10% del suo cervello. Ma cosa succederebbe se, in qualche modo, riuscisse ad usarne una percentuale maggiore? E’ quello che si domanda il professor Samuel Norman (interpretato da Morgan Freeman), più o meno all’inizio di “Lucy”, l’ultimo film di Luc Besson, durante una lezione universitaria. Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, una ragazza di 24 anni viene rapita da un gruppo di malavitosi e obbligata a lavorare come corriere della droga. Si chiama per l’appunto Lucy ed è interpretata da Scarlett Johansson. Ma che cosa c’entrano queste due vicende e in che modo Besson riesce a legarle tra loro?
Ebbene Lucy viene operata chirurgicamente e le viene inserita nell’addome una sacca contenente una nuova droga. Il pacchetto che trasporta, però, si lacera e il contenuto si riversa all’interno del suo corpo. Le sostanze vengono assorbite dal suo organismo e lei acquista straordinarie capacità fisiche e mentali, aumentando a dismisura la capacità di sfruttamento del proprio cervello.
Inizia così per la protagonista un viaggio ai confini della realtà, che la porterà a contattare il professor Norman e a sacrificarsi per lasciare a lui (e quindi all’umanità), tutte le nuove conoscenze acquisite.
Lucy ricorda molto Nikita. E’ un’altra eroina suo malgrado, una ragazza semplice che vive a Taipey e che si fa incastrare da un nuovo fidanzato. E’ lui che la obbliga ad entrare in un albergo per consegnare una misteriosa valigetta ad un boss della malavita internazionale che poi, appunto, la sequestrerà e ne farà un corriere della droga. Come per Nikita , anche la vita di Lucy improvvisamente cambia del tutto, e proprio come lei, ma anche come altre sue eroine, man mano acquista forza d’animo e slancio temerario. E’ interessante come Besson scelga sempre di affidare questi ruoli eroici alle donne.
Ma torniamo un momento alle lezioni del professore. C’è una constatazione interessante (che è un po’ il cardine su cui si incentra il film), anche se molti spettatori (distratti da effetti speciali e scene cruente) lì per lì non riescono a cogliere. Il professore fa notare, nella sua lezione, che i delfini sono l’unica specie esistente che usa il 20% delle proprie potenzialità cerebrali. Per questo l’uomo li studia.
Ma mentre l’uomo avrebbe usato il suo 10% per costruire cose e fare soldi (dedicandosi in pratica solo all’aspetto concreto e materiale della realtà), i delfini hanno sfruttato le loro potenzialità per trasformare se stessi in veri e propri sonar viventi con un sistema comunicativo tra i più sofisticati ed avanzati esistenti in natura. Questo significherebbe dunque che l’uomo non sia poi molto interessato all’essere, quanto piuttosto all’avere. Ma il professore si spinge oltre.
Non solo l’uomo non avrebbe fatto alcun progresso a livello cerebrale o mentale (anche solo vagamente simile a quello dei delfini), anzi al contrario, è probabile che, nel tempo, possa addirittura essere regredito. Sembra, infatti, che se oggi l’uomo fosse in grado di usare il 20% del proprio cervello, potrebbe percepire il proprio metabolismo e controllarlo. Ma la prima di queste due capacità sembra fosse già stata acquisita da popolazioni molto antiche. Pare, infatti, che alcune di queste fossero consapevoli dell’esistenza delle cellule, poiché in grado di percepirle nel proprio corpo, senza l’ausilio di alcuna strumentazione tecnico/scientifica.
E’ un’ipotesi, questa, al contempo affascinante e inquietante che rimanda, volenti o nolenti, a certe teorie o convinzioni secondo le quali, in realtà, sarebbe un bene che l’uomo riesca ad usare solo il 10% del suo cervello perché, se ne usasse di più, probabilmente rischierebbe di fare molti più danni a se stesso e al pianeta sul quale vive. Magari potrebbe anche autodistruggersi.
Per finire, perdoniamo a Besson gli esagerati schizzi di sangue un po’ troppo “tarantineggianti” (anche se vanno tanto di moda o forse proprio perché vanno tanto di moda), poiché l’idea di fondo del film è molto interessante. Non dimentichiamo che la narrazione è disseminata di rimandi e citazioni sui principi del Tao e del Taoismo, anche se, forse, per scoprire quali, occorrerebbe vederlo più di una volta.