La Prima Guerra mondiale, che i francesi, gl’inglesi e gli americani commemorano l 11 novembre giorno dell’armistizio con la Germania, e gl’italiani il 4 novembre giorno dell’armistizio con l’Austria-Ungheria, dovrebbe indurre a riflettere sul significato di commemorazione. Commemorare significa condividere un sentimento, condividere: possedere insieme; partecipare insieme. Si può commemorare l’entrata in guerra? Si, a certe condizioni. Per dimostrare di non voler cadere nell’apologia bellicistica né in quella contraria, ma al contrario sostenendo che pietas e veritas sono il binomio indispensabile per la “narrazione” della storia, ricordo qui succintamente il numero delle vittime (soldati) del conflitto e anche le “ragioni” che lo sostennero, avvenute per altro in un periodo della nostra storia in cui gli Stati imperiali e autoritari, attenti ai “guadagni” territoriali, erano ancora usi tassare i sudditi imponendo loro tributi in denaro e sangue.
Le “ragioni”
Per il governo italiano dell’epoca (1915, Salandra), «guerra risorgimentale»; per gl’interventisti democratici, guerra al militarismo autoritario degl’Imperi centrali; per Benito Mussolini e gli anarco-sindacalisti, «guerra rivoluzionaria» contro parlamentarismo e borghesia; per il re d’Italia Vittorio Emanuele III, gloria per sé e per la casata; per esteti alla D’Annunzio e futuristi alla Marinetti: «igiene del mondo» necessaria per rinascere. Per molti imprenditori, fattore di crescita e sviluppo; per molti politici, il nazionalismo sacro da contrapporre alle rivendicazioni operaie e contadine. Per i realisti, infine, il prezzo da pagare per sedere al tavolo della pace e ridisegnare la geografia d’Europa.
I numeri
I due schieramenti contrapposti conobbero una ecatombe. Francia: un milione 383 mila morti, due milioni 560 mila feriti; Gran Bretagna: 767 mila morti, due milioni e 90 mila feriti; Italia: 564 mila morti, un milione e 30 mila feriti; Germania: un milione 686 mila morti, quattro milioni e 211 mila feriti, 991 mila dispersi; Russia (fino al 1917): un milione 700 mila morti, due milioni 500 mila feriti; Stati Uniti, entrati in guerra verso la sua fine: 81 mila morti, 179 mila feriti. Per non parlare dei sacrifici delle popolazioni. Fin qui i fatti.
Commemorazione
Col 24 maggio, data dell’ingresso in guerra dell’Italia dopo incertezze ed equilibrismi a fianco degli alleati di turno, Triplice e Intesa, legittimamente si dovrebbe commemorare – ai vincitori, giusto o sbagliato che sia spetta di celebrare le loro vittorie – la nascita di una nazione (leva obbligatoria, mobilitazione da Nord a Sud di popolo e borghesia, liberali socialisti anarchici sindacalisti e cattolici, e un “bagno di sangue” senza precedenti nella storia del giovane Regno sabaudo – senza indulgere a trionfalismi né celebrare la passione per la guerra guerreggiata. Così come ricordando la Liberazione nata dalla Resistenza non si vuol certo venerare la guerra malamente persa e la sua trasformazione in guerra civile, quanto piuttosto evidenziare il significato che essa ha avuto per libertà e democrazia per il nostro Paese e la nascita della repubblica.
I numerosi monumenti, le lapidi che costellano il nostro Paese dalle Alpi all’estrema punta della Sicilia, questa l’intenzione, celebrano commemorandoli i caduti in quella guerra mondiale. Ma la sola presenza simbolica di sculture commemorative – per ragioni anagrafiche dileguati combattenti e reduci (ultimi, “i ragazzi del ’99”), anemizzate le associazioni d’arma – ormai non costituisce più memoria: le ultime generazioni, giovani e giovanissimi, niente conoscono ‘veramente’ di quel tragico evento che un papa (Benedetto XV) definì “inutile strage” e un filosofo (Croce) a lui contemporaneo «malattia morale». Peccato.
Se, come si sente ripetere a ogni piè (retorico) sospinto: “dobbiamo coltivare la memoria storica e tornare ad amare il nostro Paese”, perché dunque mortificare con un (politicamente corretto?) oblio i fatti e le persone che realmente – a cent’anni dall’avvenimento – formano davvero la memoria storica di una nazione che non è nata nel ’45 ma molto prima?