In visita al complesso carcerario “Le Nuove” di Torino, ora adibito ad area museale, la nostra Collaboratrice “incontra” Renzo Cattaneo, partigiano, fucilato il 27 luglio 1944 a soli 16 anni.
L’imponente edificio è qui, davanti a me. Tutt’altra cosa è invece la nostra guida: un uomo piccolo, segnato dagli anni, sembra simpatico. “In questo posto vengono rinchiuse le persone che hanno detto NO alla società, e a cui la società ha detto NO”, ci dice, e annuisco. Ci conduce in un cortile stretto, e noto subito che sul muro di destra c’è una serie di volti, tutti in bianco e nero, due date sotto ognuno, e la seconda è per la maggior parte di loro il 1944. Mi avvicino, il volto di un ragazzo mi colpisce, potrà avere la mia età: Renzo Cattaneo.
“Ma dove mi portano ahia mi fanno male alle braccia se mi tengono così chi pensano di essere come possono trattarmi in questo modo come fanno a volermi vedere soffrire e ora che succede perché chiudono tutte le porte ma questi che rumori sono mi sento stanco mi manca l’aria non respiro certo che c’è una puzza qui dentro vorrei essere fuori libero c’è il sole è una bella giornata oggi chissà cosa fanno i miei compagni di brigata vorrei essere ancora con loro ci riuscirò non finirà tutto qua dentro devo trovare il modo per uscire hanno bisogno di me e io di loro non è così che finirà la mia lotta questi bastardi non mi avranno mai”
Felice, questo il nome della nostra guida, ci racconta le storie di alcuni di loro. Chi muore perché partigiano, chi perché ebreo. E a ogni storia che racconta un brivido mi sale lungo la schiena. Procediamo, e ci dirigiamo all’interno. Prima di poter arrivare alle celle c’è una serie di cancelli e di porte, in tutto saranno quattro o cinque. Felice ci spiega che per un carcerato entrare qua non era facile: ogni porta che oltrepassava veniva poi chiusa alle sue spalle, per farlo sentire sempre più lontano dal mondo esterno. Attraversiamo queste porte e arriviamo alle celle del primo piano. Sono piccole, male odoranti, alcune con delle scritte sui muri. E poi ce n’è una, una in particolare, al fondo, con dentro un letto in legno, e un foro all’altezza del bacino. Ci viene spiegato che era una cella “di punizione”. Chi doveva essere punito veniva legato a questo letto, e poteva rimanerci per giorni, settimane, anche mesi. Una vera e propria tortura.
“E’ da ieri che sono qui dentro e già non ce la faccio più non riesco proprio a stare fermo me lo diceva sempre mamma che ero un bambino iperattivo chissà se mi immaginava così sicuramente no nessuna madre vorrebbe questo destino per il proprio figlio secondo me è un destino nobile sarei fiero di mio figlio come lo sono ora di me e dei miei valori mi dispiace mamma lo so che ti sto facendo soffrire molto mi manchi sono sicuro che ci rivedremo spero di non finire come lui dentro la cella di punizione si lamenta da stamattina starà soffrendo molto ora ho paura la sento è dentro di me si sta appropriando del mio corpo non riesco a rimanere lucido non so se rivedrò mia madre”
Stiamo scendendo, sempre più giù, nel seminterrato. È tutto buio qui. Ci troviamo nel corridoio dove sono situate le celle dei condannati a morte della Resistenza. In ogni cella c’è una frase, l’ultimo pensiero che i condannati hanno voluto dire, hanno voluto far sapere, comunicare. Le leggo tutte. C’è chi scrive alla mamma, chi all’amata, chi ai figli. Tutte parole commoventi che mi fanno riflettere su quanto questo mondo sia ingiusto. Anzi no, mi correggo, non è il mondo a essere ingiusto, sono le persone che lo abitano a renderlo così. A chi è concesso sentenziare cosa sia giusto o sbagliato pensare, giusto o sbagliato essere?
“Non è giusto non è giusto non possono farlo non mi possono uccidere non posso morire non voglio morire ho sedici anni cosa diranno a mia madre e a mio fratello? Questa nuova cella è così buia e fredda ho paura non posso piangere mi vedrebbero e godrebbero non devo dar loro questa soddisfazione dovranno vedere il mio volto sereno domani mentre mi fucileranno a Moncalieri per fortuna non è vicino a casa mia mamma non mi vedrà nessuno dei miei conoscenti mi vedrà è meglio così sono più tranquillo”
Esco da quel posto con i brividi, consapevole di una realtà che non conoscevo, che avevo ignorato. Ora che ne sono venuta a conoscenza, però, mi è impossibile continuare a ignorarla, a non pensarci, a far finta che tutto questo non sia mai successo. Questa è Storia. È la nostra storia, di quello che eravamo e di quello che non dovremo più essere. Torno a casa, a Moncalieri, e il volto di quel ragazzo mi torna in mente. Sedici anni. La mia età. Dentro di me nasce una profonda ammirazione per quello che lui e le altre vittime hanno fatto per noi, per le generazioni del futuro. Quanti al giorno d’oggi sarebbero disposti a fare lo stesso? Oggi che viviamo in un mondo corrotto, pieno di ipocrisia e di false speranze, in cui le persone pensano solo al loro piccolo, in cui regna il razzismo e l’indifferenza. Quanti sarebbero disposti a dare la vita per il proprio Paese? Probabilmente il mondo in cui viviamo non è ancora quello che immaginavano le vittime del nazifascismo, forse c’è bisogno di più tempo, o forse la loro lotta è destinata a rimanere un’utopia.
“Voi che ora mi guardate mentre mi state fucilando ricordatevi del mio volto dovrete sognarmi tutte le notti dovrete pentirvi non è così che si tratta un uomo come voi potrei essere vostro figlio vostro fratello e non ve ne importa dovrete pentirvi perchè siete gli artefici di quello che sta succedendo alla nostra bella Italia all’Europa intera muoio fiero di aver incarnato lo spirito patriottico di aver combattuto contro gente come voi. Mamma Gino siate fieri di me e continuate a ribellarvi finché le cose non cambieranno vi amo”
Di Francesca Randazzo, 16 anni.