Maddalena Boero: l’artista che ama la montagna e addobba il fondo del mare
Geologa di formazione, ceramista per passione, viaggiatrice per destino: Maddalena Boero dà forma e vita all’argilla. E dall’argilla lascia plasmare la sua vita, una vita fatta di spostamenti, nuove città da scoprire, nuove case da allestire, nuove relazioni da costruire. Perché, ricorda “la perseveranza e la passione per il mio mestiere sono stati l’unico strumento che ho avuto per sopravvivere al mio girovagare, per trovare il mio ruolo e il mio spazio nella vita. Mi sono sempre spostata per il lavoro di mio marito, con tre figli al seguito, ma sempre cercando il mio ruolo e il mio spazio. Non bisogna fare le cose per qualcun altro ma per la propria formazione personale, restando moglie e madre”.
Partiamo dall’inizio, geologia cosa ha rappresentato per te? Quando mi sono iscritta all’università, geologia mi è sembrata la sola facoltà capace di suscitare in me qualche interesse. Amo la natura, sto bene a contatto con la terra, soprattutto in montagna. E poi forse le rocce le ho avute accanto fin da bambina: mio nonno era un collezionista di minerali, li ho sempre visti in casa e questo mi ha ispirato. Dopo la laurea ho seguito un corso di formazione artistica all’Arpa di Torino e lì sono entrata in contatto con il materiale, dalla creta al gesso. Tre anni di scuola serale che mi hanno arricchito e aperto un mondo. Fin dalla tesi, che riguardava lo studio del degrado e la conservazione di lapidi romane, sapevo già che non avrei fatto la geologa, in giro per cantieri. Non era quella la mia strada.
La tua strada ti ha portato a viaggiare.
Sì, per il lavoro di Alberto, mio marito. Cambiare città mi ha permesso di frequentare laboratori che diversamente non avrei incrociato. Prima a Roma, nel Maccarese, dove abita e lavora la scultrice Liliana Verlich. È molto interessante frequentare laboratori di altri artisti, ad ogni incontro ti si presenta un’opportunità differente. È l’arte che si nutre
Dopo Como Zagabria, lì, dopo due anni di fatica nell’adattarmi al nuovo paese, in cui non trovavo nessuno con cui condividere la mia passione, grazie a un’amica argentina ho incontrato Lidia Boševski. Sono entrata un giorno nel suo atelier e non ci sono più uscita. Anche ora che vivo lontano da lei ho con Lidia un legame profondo. Da lei ho imparato tutto l’aspetto legato alla progettazione delle mostre e dei progetti. Una mostra personale va ideata, costruita, finanziata, comunicata, promossa. Lei mi ha insegnato tutto questo. È stato un lavoro molto importante. Nell’ultima città in cui sono stata, Trieste, ho fatto l’esperienza di lavorare in un negozio, in società con un’altra ragazza. È stata un’esperienza formativa sia da un punto di vista economico che artistico e gestionale.
Il tuo vivere in giro per il mondo, che cosa ti ha dato, come persona e come artista?
Uscire forzatamente dalla mia confort zone è stato utile. Penso che dovrebbe essere obbligatorio per tutti. A Zagabria, alla scuola americana frequentata dai miei figli, c’erano persone di 25 nazionalità differenti. Questo ti porta a riflettere e soprattutto a relativizzare e capire che non tutto è come pensiamo che sia. Eppure vivere fuori è faticoso, difficile, ci sono momenti di profonda solitudine, di stupore e altri di tristezza. Per me è stato un percorso obbligato, da sola non l’avrei mai fatto e so che non mi abituerò mai. Ogni volta che mi sposto riparto da capo. Ora però, se devo partire, lo faccio con maggiore consapevolezza, più fiducia nel valore dell’esperienza. Anche se conosco e percepisco la fatica del nuovo, dell’inizio, della scoperta che porta delusioni ma anche ricchezza. Faccio un piccolo esempio. Arrivo da due giorni di mostra a Torino, nel mio atelier, nella mia città, ed è stato un grande successo. Qui ho casa, amici, famiglia, radici profonde. Qui ho giocato facile, mi è bastato pochissimo per far conoscere il mio lavoro. Quando vivi fuori nessuno ti conosce, ci vuole tempo e tempo e ancora tempo. Per scalfire il muro di poco interesse che naturalmente ciascuno di noi ha verso chi arriva da lontano. Verso chi non è immediatamente famigliare, amico, vicino, riconoscibile. E quando finalmente le persone iniziavano a conoscermi, a scoprire il mio lavoro, io ripartivo. Di contro, vivere altrove arricchisce, vivere gli altri atelier significa apprendere, imparare, scambiare energie e conoscenza. Credo sia importantissimo per un artista.
Poi ci sono progetti che hai a cuore. Sì. Il primo è Mare Modul. un progetto nato quasi due anni fa. A Zagabria Lidia è stata contattata da alcuni biologi marini, per progettare una collaborazione. E mettendo assieme le idee hanno deciso di creare delle sculture da posizionare sul fondo del mare e di chiedere al governo Croato di poterle mettere nella zona di Rjieka, dove il mare è stato devastato. Lidia ha coinvolto me ed altri ceramisti. Due mostre hanno preceduto la posa delle opere, una a Zagabria e una a Rijeka. E poi, incredibilmente, a novembre le sculture sono state appoggiate in fondo al mare. È stata un’emozione incredibile vedere le nostre opere in braccio ai sommozzatori e poi poggiate sul fondo del mare. Abbiamo vinto il primo premio fra i progetti artistici in Croazia e la città di Spalato ci ha chiesto di produrre sculture per il suo mare. E poi c’è More Clay Less Plastic. È stata Lidia a farmi conoscere Lauren Moreira, ceramista brasiliana che vive nelle dolomiti friulane, ideatrice di More Clay: un movimento che, attraverso l’uso della ceramica, invita le persone a riflettere sull’uso della plastica e a combatterne l’uso e l’abuso. E la sensibilizzazione avviene attraverso mostre nazionali ed internazionali, in giro per l’Europa e per l’Italia.
Questo mestiere e questo girovagare ti hanno cambiato?
Sono quella che sono adesso grazie al mio vivere lontano da casa. L’ultimo anno trascorso a Trieste, pensando che sarei tornata a Torino, ho fatto richiesta a spazi “sociali” e cooperative per avere un luogo da affittare a prezzo equo per fare il mio laboratorio. Io in cambio avrei offerto una giornata di lavoro per la cooperativa. Ho scritto il progetto, l’ho presentato a diverse realtà e alla fine la Cooperativa Valpiana ha accettato la mia proposta. Seguo tre tipologie di persone. Ragazzi migranti, seguiti dalla cooperativa per entrare nel mondo del lavoro; ragazzini italiani che provengono da famiglie problematiche, che non riescono a seguirli durante il giorno e che al Valpiana trovano un luogo che li accoglie e li segue e per finire ragazze che vivono qui, giovani donne e ragazzine che hanno subito violenza fisica e psicologica. Sono qui da un anno, felice di questa nuova esperienza. Amo lavorare con questi ragazzi. Pochi giorni fa ho lavorato con una ragazzina del Congo. Timidissima, si mangiava il cappotto, la sciarpa. Le ho messo in mano un panetto di creta e le formine per fare i dolcetti di Natale. Dopo dieci minuti ha iniziato a lavorare, così le ho dato un cestino di pizzi da applicare sulle sue formine. Per creare alberi di pizzo, alci di pizzo, stelle comete di pizzo. Dopo 15 minuti si è trasformata: si è alzata, ha iniziato a muoversi, a creare, a usare tutto ciò che aveva. Ecco, queste sono esperienze bellissime. Sono contenta, ho messo pezzettino dopo pezzettino in fila tanti progetti. Sarei diversa se fossi rimasta sempre qui? Probabilmente sì. Sarei meglio, sarei peggio? Chi può dirlo. Questa è stata la mia vita, la mia esperienza e questa sono io. Questa è la mia storia.