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DOVE I FIORI

«Quando il destino decide di deviare il corso della nostra esistenza non ci avverte […]. E per il resto della vita – scrive Donato Carrisi nel suo “La donna dei fiori di carta” – sarai costretto a una distinzione. Ciò che c’era prima di quel momento e il dopo».

Where have all the flowers gone? All’inizio degli anni Sessanta, nella stagione dei figli dei fioriDove sono finiti i nostri fiori?” chiedevano Pete Seeger, Peter Paul and Mary, Joan Baez, il Kingston Trio in una canzone folk antimilitarista che fece epoca. Con le domande delle strofe, la canzone implicitamente esortava a impegnarsi per ciò che nella vita conta.

Oggi, ora che la metaforica “guerra” contro il coronavirus sembra accennare a una pausa, ci chiediamo: e i nostri, di fiori, dove sono finiti? Dove sono finite le bandiere alle finestre, dove sono finiti gli striscioni arcobaleno, i “ce la faremo”, le canzoni dai balconi, i propositi di “resistere” all’avanzata del morbo e al confinamento imposto dalla pandemia, il desiderio di riprendere la vita “come prima”?

Adesso che la crisi è in calo (speriamo), calo della tensione morale, abbassamento della guardia, sconsiderata imprudenza individuale e collettiva pare prendano il sopravvento. Reazioni comprensibili, dopo il lungo lock-down cui siamo stati costretti (notato che gli “arresti domiciliari” nazionali li hanno chiamati così? Forse si temevano ripercussioni semantiche usando il corretto italiano confinamento?).

Se, invece, quelle reazioni fossero un segnale di resa, allora ci sarà da preoccuparsi. Perché – per rifarci ai fiori citati in apertura – sarebbero appassiti. E i nostri orizzonti meno sereni.

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