Sappiamo davvero che cosa significa questa parola? Il condottiero, ci dice il vocabolario, è il capitano di una compagnia di soldati mercenari, delle compagnie di ventura italiane. Condottiero è anche il capo assoluto di una comunità armata: il generalissimo Cadorna nella Grande Guerra, per esempio; oppure di un intero popolo, come il conducator ex presidente-dittatore rumeno Ceausescu o il presidente cinese Mao Tse Tung. Come nasce questa parola?
Per spiegarci ricorriamo a un saggio di recente pubblicazione che il The New York Times ha giudicato tra i dieci libri migliori del 2020. Nel paragrafo a pagina 182 del libro War pubblicato da Rizzoli (2021) della canadese Margaret Mac Millan, docente emerita di Storia internazionale a Oxford e uno dei più grandi storici militari a livello mondiale si legge: «Nel XIII e XIV secolo bande di uomini armati girovagavano in Italia, offrendo i propri servigi alle ricche città-Stato in lotta con i vicini. Alcuni di essi erano uomini del posto mentre altri avevano attraversato le Alpi, veterani delle crociate o di guerre dinastiche, capaci di fare ben poco oltre che combattere. I capi firmavano un contratto, detto condotta, con il quale fornivano un determinato numero di soldati. Gli uomini, detti condottieri, portavano con sé le proprie armi e la propria armatura e combattevano finché venivano pagati».
Un libro che suggeriamo di leggere perché l’autrice ci presenta la storia dell’umanità mossa e sviluppata dalla guerra attraverso un viaggio lungo millenni, dall’aggressività dei nostri antenati preistorici fino ad Al Quaeda. La guerra, sostiene MacMillan, ha plasmato istituzioni, valori, idee, lingue; ha influenzato l’economia, la scienza, il progresso tecnologico e la ricerca medica. Ha ispirato, nel bene e nel male, poeti, scrittori, drammaturghi, musicisti, pittori e registi. Senza i conflitti armati non avremmo conosciuto la democrazia antica, quella dei greci, o quella moderna figlia delle rivoluzioni americana e francese.
Un peana della guerra, dunque? Tutt’altro.
Narrato con piglio gradevole, il libro interpreta in maniera insolita il progresso della nostra specie. E il rischio che, sostenuta dal progredire della tecnologia, la guerra ci faccia progredire anche verso l’orlo della catastrofe planetaria. MacMillan sostiene che l’Occidente oggi si rifiuta persino di pensarla, la guerra. Non di combatterla, però. Che altro sarebbero le missioni di peace keeping e di peace enforcing in molte parti del pianeta, di cui leggiamo sentiamo parliamo tutti i giorni? Intrigante.