Sorry – out of use. È la scritta che, negli ultimi giorni di settembre, si leggeva sull’apposito cartello affisso sulle pompe dei distributori di carburante nel Regno Unito rimasti “a secco”. La causa del fuel shortage? Pandemia e ‘Brexit’. In italiano l’avviso (qualora presente…) si sarebbe limitato a un asciutto “fuori servizio”; oppure, “chiuso”. Direte: dov’è la differenza? L’informazione fornita all’utente è la stessa che in UK. La differenza, amici lettori, è in quel sorry = ci spiace, scusate, con cui l’inglese – lingua educata – si rivolge al cliente per avvisarlo che il supplier (il fornitore) comprende il disagio del customer (il cliente) per il disservizio provocato.
Tecniche di vendita, certo. Anche una diffusa (e generica) predisposizione a concludere positivamente l’affare. Forse perché gli inglesi sono una nazione di bottegai come spregiativamente sosteneva il Bonaparte. Sarà. Però la customer satisfaction e l’approccio, il modo di “comunicare” hanno il loro peso nello scambio commerciale. Concetto che noi italiani a volte fatichiamo a fare nostro. Un esempio tra i tanti: «se ha bisogno, mi chiami» spesso ci ripetono commessi/commesse in altro affaccendati di negozi nei quali entriamo per fare acquisti. In cambio di denaro. Il nostro.
Di là della Manica invece: «Can I help you?», che cosa posso fare per Lei? Ammetterete che come approccio, anche se meccanicamente recitato, suona diverso. Del resto, in inglese communication è comunicazione e in italiano “notizia o dichiarazione diffusa per ragioni informative, organizzative, direttive”, come leggiamo sul dizionario.
Nel libro Translating Cultures (Routledge, 1999), citato in Lingue, funzione fatica e cortesia, David. M. Katan dedica i capitoli 10 e 11 a due aspetti fondamentali della comunicazione: quella transazionale, il cui scopo è la trasmissione di informazioni (prevalgono i fatti) e quella interazionale, la cui finalità è stabilire, mantenere o rafforzare la relazione tra gli interlocutori (prevalgono gli aspetti personali, sociali o fatici).
Per comprendere meglio la differenza linguistica tra il selling e il nostrano vendere, ne riportiamo un brano: «Come prevedibile, le maggiori differenze culturali tra una lingua e l’altra si manifestano nella comunicazione interazionale. […] In inglese britannico la cortesia (politeness) viene espressa facendo uso dei principi di “cortesia negativa” (negative politeness), ad esempio evitando forme dirette, come l’imperativo, che potrebbero dare l’impressione di volersi imporre sull’interlocutore, usando not con parole positive (ad es. not very convenient) o nelle forme verbali (ad es. wouldn’t it be better if…), scusandosi per quello che si sta per dire ecc. In particolare, l’inglese britannico ricorre in gran misura a meccanismi linguistici descritti come hedging e cushioning, ovvero dei “riempitivi” che mitigano l’impatto di una comunicazione potenzialmente sgradevole». Come non pensare al ridondante uso di please?
Se ritenete possibile che questo linguaggio d’Oltremanica conservi – ancorché nascosto – un velo di ipocrisia, non possiamo darvi torto: nella vita contano i fatti, non le parole. Salvo quando, sorry, le parole rispecchiano i fatti.