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BUZZURRI, BURINI, CAFONI

Recita un vecchio proverbio: ne taglia di più la lingua che la spada. Succede ancora, anche se forse non sappiamo come.

Vediamo alcune parole non propriamente gentili.

Uno dei simboli del nostro Risorgimento, la Presa di porta Pia della Roma papalina nel 1870 a opera dei soldati piemontesi guidati dal generale Cadorna ha lasciato tracce anche nella nostra lingua. Risalgono a quell’epoca le definizioni orali appiccicate alle popolazioni che abitavano le varie regioni d’Italia, coinvolte nel processo di unificazione nazionale. Parole che si sono trascinate sino a oggi, e che hanno conservato una leggera traccia dispregiativa nei confronti delle persone, ritenute villane, rozze, zotiche.

Buzzurri era il termine che, nella futura capitale d’Italia indicava i «caldarrostai venuti dal Nord» e per estensione dispregiativa, i piemontesi: «Vennero i piemontesi, detti buzzurri, quindi i centrali, detti burini, infine i meridionali, detti cafoni». Buzzurri, è un toscanismo. Secondo l’Accademia della Crusca, indicava i castagnai ambulanti svizzeri dei Cantoni del Ticino e dei Grigioni, che d’inverno lasciavano le loro montagne e andavano a vendere le caldarroste a Firenze, diventata capitale del Regno d’Italia dal febbraio 1865 a quello del 1871. Per questo, forse, indicati come “piemontesi”.

Burini: col termine burino, ci informa l’enciclopedia on line, in dialetto romanesco viene designato il contadino, il campagnolo e, in senso più esteso e moderno, una persona con forma e modi da provinciale. Secondo un’ipotesi fantasiosa, il linguaggio popolare romanesco chiamava “burini” i venditori di buro che venivano da fuori città. Una ricostruzione etimologica meno dubbia, sarebbe quella che invece la farebbe derivare dal termine bure, ossia al manico dell’aratro, con cui venivano indicati i braccianti della Romagna, per diversi secoli inclusa nei domìni dello Stato Pontificio, ingaggiati come lavoratori stagionali nell’Agro romano. Infatti, lo stesso telaio dell’aratro era chiamato spesso e volentieri burino. Sarebbe l’equivalente nordico di “voltaterra”

E veniamo ai cafoni. Oggi questo epiteto è carico di significato negativo e sprezzante nei confronti di colui cui è rivolto. Secondo il vocabolario, cafone = contadino è una persona grossolana, ignorante, oppure priva di buon gusto, di tatto, di rispetto. Sulla sua origine, ancora l’Accademia della Crusca: «Un’etimologia che gode di un certo favore, seppur a livello popolare è quella che vorrebbe la forma cafone derivata, in area campana, dalla concrezione della preposizione ca (‘con la’) più il sostantivo fune per indicare ‘quelli con la fune’». Prosegue la Crusca: «nell’entroterra della provincia di Terra di Lavoro ovverosia nel basso Lazio, intorno al 1400, quando nei comuni del Frusinate o della Pianura campana arrivavano gli abitanti dei villaggi montani delle zone adiacenti, con delle funi arrotolate intorno alla spalla o alla vita, per acquistare il bestiame nelle fiere, questi venivano identificati dagli abitanti locali come “quelli co’ ’a fune”».

Secondo un nostro conoscente partenopeo doc – il significato spregiativo e offensivo di questo etimo sarebbe invece da attribuire, risalendo indietro nei secoli, a quella povera gente, i cafoni appunto, che poveri scalzi straccioni arrivavano in città (Napoli) reggendosi i calzoni con una “fune” annodata in vita. Quei calzoni che, secondo una nota ballata popolare, alcuni avrebbero barattato «per un piatto di maccheroni».

 

P.S. La tradizione citata sopra di recarsi nella capitale per vendere le caldarroste pare continui, anche se a indirizzi e protagonisti rovesciati; oggi sarebbero italiani i caldarrostai a salire al nord per il lor commercio stagionale. A noi è capitato di incontrarne uno, il dicembre di qualche anno fa, col suo carretto lungo la via che conduce alla stazione ferroviaria di Strasburgo: un connazionale proveniente dalla capitale del fungo porcino, Borgotaro, indaffarato a vendere marrons italiennes ai francesi della capitale d’Europa.

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