Nella pubblicistica politica, -gate è potenziale secondo elemento di composizione. Deriva da Watergate, toponimo legato allo scandalo che costò la presidenza degli Stati Uniti a Richard Nixon (1974): se ne coniano termini, come Irangate e sexygate, allusivi a scandali cui sia legata la figura del Presidente USA o di altri personaggi politici di primo piano. Questo secondo Oxford languages.
Da noi, un po’ provincialmente e sicuramente con poca fantasia, i media hanno preso l’abitudine di appiccicare il suffisso -gate a qualunque episodio di malaffare che abbia rilevanza sociale. L’ultimo grido della moda è il neologismo Qatargate, con cui si indicano sulla stampa e sui social i recenti episodi di corruzione – si parla di somme importanti di danaro – a favore di taluni europarlamentari; episodi di cui si stanno occupando la Procura di Bruxelles, il Parlamento Europeo e i mezzi di informazione dell’intero Vecchio continente.
Il senso che si desume dalle cronache è: neppure i parlamentari dell’Ue (non tutti, ci mancherebbe!) sono alieni dal trasformarsi, all’occorrenza, in lobbisti a favore di qualche “interesse” che però… non ha interesse a farsi conoscere come tale.
La bufera politica e mediatica seguita a questo scandalo all’Europarlamento è vivace, vigorosa e variopinta. Non entriamo nell’argomento della corruzione qatariota perché non è questa la sede e, sopra tutto, non appartengono alla cultura di chi scrive né indulgenze né giustizialismo, meno che mai “superiorità morale”. Quindi nessun commento. Suscita però il nostro interesse il fatto che, nelle parole penne e pensieri di chi li descrive, gli episodi di corruzione degli europarlamentari affiorati in occasione della promozione dei Campionati mondiali di calcio nell’emirato vengano descritti come attività di lobbying, attribuendo alla parola valenza negativa e spregevole, trasformandola in una parolaccia.
Ci sia consentito però di assumere, a questo punto sì, la difesa della parola lobby. Nel nostro Professione lobbista. Portatori di interesse o faccendieri? (Lupetti, 2013), sosteniamo la tesi che la lobby vuole le regole, la politica un po’ meno (una “superficialità” che di fatto agevola i corruttori dei politici all’interno delle istituzioni); confermiamo che la lobby è attività legittima se trasparente rappresentanza di interessi di aziende, associazioni, enti o gruppi presso le istituzioni centrali o periferiche. La nostra storia politica è piena di un «pan lobbismo» che non è democrazia liberale, ma al massimo, quando va bene, concertazione o cinghia di trasmissione. Che è altro rispetto alla lobby. Il rimedio? Una lobby regolamentata, intesa come alternativa democratica ed efficace al malcostume e alla corruzione. Solo obbligando la politica a un dialogo trasparente, a una informazione pubblica di tutto il processo decisionale riusciremo a togliere qualsiasi alibi al malaffare, ai “poteri forti”, ai “trafficanti di influenze”, “agli “amici di”, ai faccendieri. Alla cattiva lobby insomma. E allora ben venga la buona lobby, quella che consente alla società di interloquire con le istituzioni riconoscendo e “premiando” competenza, onestà, e credibilità. Il ridicolo suffisso -gate andrebbe in pensione.