Ci sono parole che sembrano eterne. Una di queste è rebus. Siamo tra il 62 e il 65 d. C. : «verba rebus proba», prova le parole con i fatti ribadiva, nelle “Lettere morali a Lucillo” – governatore della Sicilia – il filosofo latino Seneca. Duemila anni dopo, la parola rebus è ancora abitualmente usata. La sua origine si fa comunemente risalire all’ablativo latino di res (cosa).
Come detto, al giorno d’oggi i suoi usi sono più d’uno. Nel nostro Diritto, all’art. 1467 del Codice civile “contratto con prestazioni corrispettive”; alla clausola contrattuale “rebus sic stantibus” (stando così le cose): se non si modifica il rapporto che intercorre tra il valore delle reciproche prestazioni, l’accordo stabilito rimane vincolante. Nel caso del gioco enigmistico, gli oggetti illustrati nella vignetta suggeriscono la frase da individuare. Più colloquialmente, rebus è metafora di una situazione intricata e di difficile interpretazione: “è un bel rebus” diciamo noi, quando non sappiamo che cosa scegliere.
C’è anche un’altra applicazione della parola rebus: la citazione latina «est modus in rebus» usata per dire “c’è modo e modo”. Su quest’ultimo punto ci informa il dizionario Treccani: “è una sentenza di Orazio, (Satire I, 1, vv. 106-107) cui fa seguito sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum. Che tradotto significa: «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura