Sono tempi, questi, dove affiorano neologismi e modi di dire inediti. Anche terminologie inconsuete. È il caso, per esempio, di “competizione vittimaria”, definizione adottata di recente da filosofi e da studiosi di varie discipline sociali. Di che cosa si tratta? Fondamentalmente, spiega il sociologo e politologo Luca Ricolfi in un articolo tratto da «La Ragione», è quel che succede quando le due parti rivali in conflitto hanno tra loro solide e riconosciute ragioni per «autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi. E utilizzano questa loro condizione per negare l’analoga condizione vissuta dalla parte avversa».
La cronaca di questi ultimi anni è ricca di esempi, purtroppo confermati anche (soprattutto) dai conflitti in corso e da contrapposizioni politiche, ma non solo da quelli. Anzi, secondo alcuni studiosi sarebbe stato proprio il secolo passato, il Novecento, a essere caratterizzato dal “dispositivo vittimario” (si pensi alle due guerre mondiali, per dire). Lo illustra nel suo saggio Critica della Vittima. Un esperimento con l’etica (Edizioni Nottetempo, 2014) il professore di Letterature Comparate all’Università di Bergamo Daniele Giglioli: il vittimismo esasperato e istituzionalizzato è la ragione per cui la vittima assume un ruolo centrale prendendosi in carico quello di eroe del nostro tempo. Ciò, secondo lo studioso, consente a chi ne fa uso di proporsi come strumento di sovranità, con la conseguenza che nella disputa pubblica la vittima ha il potere di annichilire l’avversario. Accade grazie a un processo di comunicazione ‘orizzontale’ in cui tecnologia informatica, intelligenza artificiale e social network hanno una funzione preponderante.