Questa volta ci riferiamo a una parola recente, che ha conseguenze dirette sui nostri acquisti di cibo, bevande e prodotti di uso domestico: compriamo meno spendendo di più. Senza accorgercene. Il termine è sgrammatura.
Estesa a tutte le categorie merceologiche, la sgrammatura (shrinkflation nel gergo del marketing) è una strategia subdola e sfuggente, ancorché legale, che i produttori spesso utilizzano come alternativa all’aumento dei prezzi di vendita in conseguenza dell’inflazione. Detta anche riposizionamento, la sgrammatura consiste nel metter in vendita un prodotto allo stesso prezzo di prima, ma con all’interno una quantità inferiore di prodotto. Spesso anche il packaging è il medesimo, oppure persino aumenta per dare l’impressione di ‘nuovo’ al prezzo vecchio; dunque non è sempre facile accorgersi dell’alleggerimento praticato.
Secondo alcune associazioni di tutela dei consumatori, lo stratagemma configurerebbe una riduzione “furtiva” del valore del prodotto, perché di difficile discernimento all’atto dell’acquisto; indagini dimostrano che i consumatori abituali, più scoraggiati dall’aumento dei prezzi piuttosto che dalla riduzione delle confezioni, sono portati a non rendersi conto dell’aumento intervenuto.
Il governo però si è attivato per non far passare la sgrammatura sotto silenzio. «Il governo italiano – leggiamo su Alimentando del 26 luglio scorso – punta a coinvolgere direttamente i produttori, obbligando le aziende a informare per almeno sei mesi il consumatore “dell’avvenuta riduzione della quantità e dell’aumento del prezzo in termini percentuali tramite l’apposizione nella confezione di vendita di una specifica etichetta con apposita evidenziazione grafica”. Così si legge nella bozza del Ddl concorrenza».
In Italia gli iter burocratico-legislativi non sono leggendari per tempestività; la difesa del consumatore dalla sgrammatura difficilmente si sottrarrà a questa regola. Però, come si dice: piuttosto che meglio, meglio piuttosto.