Cachistocrazia, questa parola, pochissimo usata nella lingua parlata, rispecchia un processo assai diffuso nella vita quotidiana. Questo termine raro e avvincente viene dal greco antico, è composta da (da kákistos, “pessimo” e krátos, “comando”) ed è il contrario di aristocrazia: il “governo dei migliori”.
La cachistocrazia è detta anche “peggiocrazia”; in questo caso assume una tonalità ironica e più facilmente comprensibile. Peraltro entrambi i sostantivi citati designano «un governo in cui il potere è affidato ai cittadini meno competenti e qualificati, dunque ai “peggiori”».
Ce ne occupiamo perché il temine è stato recentemente usato dal premio Nobel per l’economia del 2008 Paul Krugman nel suo articolo di commiato dopo 25 anni di collaborazione col The New York Times. A suo giudizio, l’era dell’ottimismo, tipica dei ruggenti anni Novanta del secolo scorso, è finita. A sostituirla sarebbero “la rabbia e il risentimento che oggi dominano la scena dell’intero Occidente”. Severa analisi della crisi politica. Che coinvolge le élite dirigenti di là e di qua dell’Atlantico; nessuno, scrive Krugman, «ha più fiducia che chi gestisce le cose sappia quello che fa, o che possa essere considerato onesto». Cachistocrazia, appunto.
Un addio, quello dell’economista, che però ci instilla un dubbio: sicuri che la peggiocrazia sia un fenomeno del momento? Perché noi, che abbiamo ormai una certa età, non ci siamo dimenticati Howard Beale, personaggio cinematografico, anchor-man televisivo che, ritenendosi ingiustamente perseguitato dal management della tv in cui lavorava, affacciato alla finestra dello studio tv gridava in diretta il suo pensiero: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!», facendo schizzare alle stelle la classifica degli ascolti. Ruolo vigorosamente interpretato dall’attore Peter Finch che per questa interpretazione nel 1977 vincerà un Oscar; stiamo parlando di “Quinto potere”, uno dei capolavori cinematografici del maestro Sidney Lumet. Il film uscito nel 1976 – ispirato a un fatto di cronaca – era una metafora della società moderna e del ruolo dei mass-media nella nostra vita quotidiana. Una denuncia di una way of life le cui ricadute sociali nel tempo avrebbero contagiato un po’ tutti noi.
A ben vedere, le ragioni individuali e sociali della accusa di Howard Beale nel film non sono poi troppo diverse da quelle individuate da Krugman, ai giorni nostri: “cachi” alla guida.